POSIZIONE STORICA E POLITICA

Se la personalità alfieriana è dunque tutt’altro che rigida e disumana, la radice dell’atteggiamento vitale, della intuizione esistenziale, storica, politica e della grande poesia dell’Alfieri è costituita da un impeto profondo di rottura, di protesta, di agonismo eroico che non trova equivalenti nelle posizioni di fondo di un Goldoni, di un Parini, e degli stessi preromantici che pur ben mostrano come la presenza alfieriana non sia priva di rapporti col muoversi piú vasto di tutta una civiltà e di tutta una letteratura.

Accesa dalla consonanza con il coraggio morale e intellettuale dell’illuminismo nelle sue versioni piú radicali, la passione alfieriana supera di fatto quella consonanza anche là dove il grande illuminismo si estrinsecava nel culto dei forti sentimenti, vagheggiava miti eroici e appoggiava lo svolgimento di sensismo in sentimentalismo, di una poetica classicistica di decoro e ragionevolezza utilitaristica in un senso della poesia che ha sempre, come diceva Diderot, «quelque chose d’enorme et de barbare».

La passione dell’Alfieri, la sua decisa attrazione per il «forte sentire» superiore ad ogni equilibrio di natura-ragione, di piacere-virtú, si muove piuttosto sulle onde crescenti dello sviluppo e della crisi dell’illuminismo, al di là dei suoi cerchi piú armonici, verso l’accentuazione preromantica del sentimento o sin nell’esaltazione dell’entusiasmo irrazionale o antirazionalistico, segnando cosí potentemente insieme un aspetto della crisi dell’illuminismo in ciò che esso poteva ancora avere di piú “razionalistico” e decurtante rispetto alla integralità dell’uomo nelle sue forze fantastiche e sentimentali, e una interpretazione drammatica del preromanticismo che da quella crisi si veniva variamente svolgendo, in una interpretazione che, ripeto, supera la condizione media del preromanticismo italiano e apre la via al vero e proprio romanticismo piú intenso.

Al centro di tutte le posizioni alfieriane, dai modi di atteggiarsi della sua vita sentimentale all’impostazione politica alla poetica e al concreto fare politico, risalta un’energica spinta individualistico-eroica, che presuppone il sentimento dolente di una situazione storica ed esistenziale limitativa e oppressiva, e che sfocia in moti di possente pessimismo nell’amarissima ricostatazione del divario incolmabile fra le esigenze, gli ideali dell’individuo superiore e i limiti della realtà in tutti i suoi aspetti e livelli.

Tale diagramma eroico-pessimistico trova la sua espressione suprema nello stesso diagramma concreto della tragedia alfieriana, ed è essenziale a comprendere tutta la critica posizione alfieriana nella sua origine, nei suoi sviluppi, nelle sue varie realizzazioni.

È essenziale anzitutto a comprendere la formidabile presenza alfieriana nel secondo Settecento in cui essa, alimentata dall’attrito con vari elementi e presenze personali di quel tempo, fortemente spicca, appanna le luci minori di altre opere e di altre personalità, rappresenta la sintesi dinamica ed aperta (da lí comincia la storia stessa del grande primo Ottocento, la storia di Foscolo e di Leopardi) dell’affermazione e crisi dell’illuminismo e dell’inquieta problematica preromantica.

Lo svolgimento di sensismo in sentimentalismo, del senso equilibrato di natura-ragione, piacere-virtú in dolorosa rivolta del «forte sentire»[1] contro gli stessi limiti dell’avarizia della natura e dei sensi («Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[2]), contro i limiti della gelida aritmetica razionalistica («i gelati Filosofisti, che da null’altro son mossi, fuorché dal due e due son quattro»[3]), l’esaltazione dell’«impulso naturale», radice comune di azione e poesia, il vagheggiamento degli errori “utili” e sin degli «enormi e sublimi delitti», dei “generosi” delitti come prova comune di bene e di male[4], lo slancio all’infinito e allo “sferrarsi” dal “terreno carcere”, la soluzione del problema della libertà in tirannicidio e suicidio dell’uomo libero, trovano certo nell’Alfieri infiniti accordi con posizioni italiane e non italiane, fra illuminismo e preromanticismo, cosí come può trovarli il plutarchismo dell’Alfieri e la sua stessa preferenza per la libertà inglese. Ma nell’Alfieri tutto trova una radice unitaria piú intera e una violenza dirompente che supera, specie in zona italiana, l’equilibrio illuministico di ragione e natura, di compromessi letterari preromantico-neoclassici, le formule culturali divulgative, dilettantesche e di moda[5], le eleganze sensibili e patinate, i recuperi di saggezza e le remore di buongusto e prudenza di tanti preromantici che rimasero fra presi e perplessi di fronte alle sue opere, come poi di fronte all’Ortis foscoliano. Sicché la stessa opposizione dell’Alfieri agli sviluppi della Rivoluzione francese, pur avendo componenti che potremo definire moderate e conservatrici, nella sua violenza, nel suo estremismo nazionale, nella sua delusione drammatica di fronte ad un’attuazione della libertà stessa, chiaramente si distacca dalle forme di prudenza di tanti altri oppositori italiani e violentemente profila quel nuovo mito della nazione che pur si legava a chiari elementi del preromantico bisogno della concretezza individuale e nazionale (ricercato dall’Alfieri fin nei particolari del volto spagnolo e, ripeto, negli «enormi e sublimi delitti» della plebe italiana) e, con tutti i suoi pericoli, pur rivelava nel suo estremismo, nel suo bisogno di nascita agonistica, le qualità alfieriane di brusco, impulsivo creatore di sentimenti e miti storicamente importanti, anche se ben necessari di una configurazione tanto piú realistica, storica, appoggiata a diagnosi tanto piú sicure e complesse.

Perché va detto chiaramente come l’Alfieri si muova, sulla base di una cultura illuministica, verso motivi nuovi alla cui configurazione intellettuale mancava in lui una nuova adeguata cultura, surrogata da forme estreme di rivolta, da intuizioni possenti, poco articolate, e a volte paradossali.

Perciò la forza alfieriana consiste soprattutto in una forma di rivolta e di annuncio, di eversione piú che di sicura costruzione, di promozione di germi esplosivi ed inconditi non ugualmente sorretti da una capacità di svolgimento e di deduzione.

Non che l’Alfieri mancasse di vigore intellettuale, come non mancava di una severa, intensa moralità, ché anzi su tali qualità si poté insistere a distinguere la sua posizione di rottura rispetto a quella degli Stürmer und Dränger, a cui il Croce l’aveva avvicinato in un celebre saggio che ha certamente aperto la nuova critica alfieriana e ha imposto la collocazione dell’Alfieri nella zona europea del “protoromanticismo”[6]. Né certo, ad esempio, gli ardenti apoftegmi della Tirannide mancano di una loro forza trascinante di passione persuasa e persuasiva, fatta pure di robusto pensiero; o che, tanto meno, le sue tragedie possano risolversi in una serie di gridi laceranti e convulsi. Ma certo la sua forza è anzitutto fatta di intuizioni e di fulminei squarci entro un tessuto storico mosso e ricco, ma piú minutamente graduato e “riformistico”.

Cosí nel suo appassionato pensiero politico (nel suo arco fra le posizioni della Tirannide – le piú accesamente illuministiche e rivoluzionarie e pur contraddistinte da un accento vibratamente nuovo e preromantico – e quelle dell’ultimo periodo di opposizione alla Rivoluzione francese, di sviluppo del sentimento nazionale, del tentativo di ricerca di una forma di istituzione che si avvicina a quella della monarchia costituzionale inglese) la costante fondamentale è data da una intuizione e volontà assoluta e intransigente (la forza e il limite dell’Alfieri è l’intransigenza, l’incapacità di mediazione e di dialettica) di libertà nel suo senso puro (è stata detta dal Russo «stellare») e addirittura prepolitico che, prima di cercare ragioni e forme di vita politica organizzativa, vale, come ben vide Gobetti, nella storia del secondo Settecento e nella nostra storia tout court, quale istanza antidogmatica, antigerarchica; anticonformistica, anticattolica. Sicché si potrà ben misurare la configurazione particolare, la massa degli appoggi culturali, le stesse componenti storiche e personali (le componenti della sua origine di aristocratico di nobiltà terriera con il suo disprezzo per la borghesia mercantile e avvocatesca, per la plebe soggetta alla demagogia e al panem et circenses), il passaggio dal momento rivoluzionario a quello della libertà “garantita” e magari di un ordine che ha a base la «proprietà»; ma non si potrà mai negare la sua autenticità di forza storica, la funzione che ha avuto, al di là dei suoi limiti e della sua precisa configurazione, nell’immettere nella nostra storia una persuasa passione per la libertà come radice di ogni sua ulteriore precisa configurazione.

Ciò che assillava l’Alfieri era soprattutto la libertà individuale. E se nella fase piú esplosiva della Tirannide quell’assillo si era tradotto nello slancio piú rivoluzionario-agonistico della eversione dello Stato monarchico (ma v’era l’eccezione significativa della «monarchia repubblicana» inglese), del contrasto fra uomo libero-liberatore, suscitatore delle energie del popolo, e l’antagonista, il tiranno (e cosí indubbiamente l’Alfieri si inseriva nella maggiore spinta dell’illuminismo prerivoluzionario), piú tardi proprio il confronto con la Rivoluzione francese lo portava a commisurare il suo ideale di repubblica[7] (che poi slitterà verso le forme della monarchia costituzionale) soprattutto a quella garanzia della libertà del singolo contro ogni sopraffazione e limitazione altrui che implicava anche la difesa della proprietà personale come elemento di libertà.

Da qui i chiari limiti della libertà alfieriana quanto a problema sociale, quanto alla nozione di «popolo», che già nella Tirannide era stato definito come

quella massa di cittadini e contadini piú o meno agiati, che posseggono proprj lor fondi o arte, e che hanno e moglie e figli e parenti: non mai quella piú numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di nulla-tenenti della infima plebe. Costoro, essendo avvezzi di vivere alla giornata; e ogni qualunque governo essendo loro indifferente, poiché non hanno che perdere; ed essendo, massimamente nelle città, corrottissimi e scostumati; ogni qualunque governo, perfino la schietta Democrazia, non dee né può usar loro altro rispetto, che di non li lasciar mai mancare né di pane, né di giustizia, né di paura.[8]

D’altra parte la posizione alfieriana, con le sue potenti implicazioni generali (la libertà dell’uomo libero alfieriano investe ogni campo e prima che politica è spirituale, culturale, personale ed implica il rifiuto di ogni imposizione esterna, di ogni gerarchia precostituita, di ogni abitudine convenzionale e conformista), non riduce affatto la sua poesia (come per molto tempo si è pensato) solo ad una specie di opera di propaganda, ad una illustrazione di posizioni libertarie, ad una oratoria politica rotta al massimo solo qua e là da squarci piú autenticamente poetici.

Anzi, a ben guardare, la poesia è la necessaria espressione di quella piú profonda intuizione esistenziale di cui la posizione politica stessa è manifestazione, mentre essa dà tanto piú la forza al poeta Alfieri di rompere ogni nozione e pratica di poesia in senso ornamentale, edonistico, sensibilistico.

Politica, poetica e poesia sono tutte sorrette da un nucleo profondo in cui lotta per la libertà politica, lotta per l’affermazione di uno scrittore libero e autentico, concreta espressione poetica trovano comune radice.


1 «Gli uomini tutti per lo piú, e maggiormente i piú schiavi (come siam noi) peccano tutti nel poco sentire». Cosí si legge nel trattato Del Principe e delle lettere, indicando l’unitaria origine della politica e della poetica dell’Alfieri (cfr. V. Alfieri, Scritti politici e morali, I, ed. critica a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 170).

2 Son. 17, vv. 9-10; Rime cit., p. 15.

3 Lettera a Teresa Regoli Mocenni del 10 dicembre 1796; in Epistolario cit., II, p. 198.

4 Ché poi, in altra prospettiva di attacco, l’Alfieri poteva, nella satira V, scagliandosi contro il diritto di asilo delle chiese, esclamare: «Mostruosa cosí, qual piú qual meno, / ogni gente d’Italia usi raccozza / fero-vigliacchi entro al divoto seno» (vv. 154-156; in Scritti politici e morali, III cit., p. 104).

5 Si noti bene come l’attacco al secolo «niente poetico, e tanto ragionatore» (nel Parere sul Saul), punta estrema della rivolta alfieriana contro la civiltà illuministica in sede insieme letteraria e culturale, implichi poi una precisazione nei confronti della «semi-filosofia» divulgativa e piú “leggiadra” che profonda, per cui (come si dice nel Del Principe e delle lettere, in Scritti politici e morali, I cit., p. 222) «non si sfondano le cose, e non si studia, ne si conosce appieno mai l’uomo». Dove, se l’esasperazione alfieriana può giungere a investire persino il grande Voltaire («Disinventore, od Inventor del Nulla»; satira VII, v. 238), par chiaro che l’attacco alfieriano si volgeva soprattutto contro una cultura media razionalistica e divulgativa di moda, e quindi anche contro ogni forma di cultura facile e generica, in nome di una cultura severa e aristocratica quale l’Alfieri vagheggiava nei grandi testi classici, dagli antichi a pensatori come il Machiavelli.

6 Cfr. B. Croce, Alfieri, «La Critica», vol. XV (1917), pp. 309-317; poi in Id., Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923 (19647), pp. 1-14.

7 È ciò che viene indicato in un sonetto del 1792, nel Misogallo (son. XVI; in Scritti politici e morali, III cit., pp. 261-262):

È Republica il suolo, ove divine

leggi son base a umane leggi e scudo;

ove null’uomo impunemente crudo

all’uom può farsi, e ognuno ha il suo confine:

ove non è chi mi sgomenti, o inchine;

ov’io ’l cuore e la mente appien dischiudo;

ov’io di ricco non son fatto ignudo;

ove a ciascuno il ben di tutti è fine.

È Republica il suolo, ove illibati

costumi han forza, e il giusto sol primeggia,

né i tristi van del pianto altrui beati. –

Sei Republica tu, Gallica greggia,

che muta or servi a rei pezzenti armati,

la cui vil feccia in su la tua galleggia?

8 Scritti politici e morali, I cit., p. 41 nota.